Europa, migranti, frontiere. Diritti fondamentali e accoglienza dei profughi nell’Unione europea
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sono risultate, dagli anni Novanta in poi, via via più restrittive, nella diffusa convinzione che la
stagnazione economica e la mancanza di progetti di sviluppo impedirebbero l’assorbimento di
manodopera esterna, incrementando unicamente secche di disagio e conflittualità sociale. Di
conseguenza, l’approccio legalistico ha reso i migranti (anche quando profughi) una categoria
da
controllare
, piuttosto che da includere socialmente: una popolazione a parte, di cui si stenta
a riconoscere l’insediamento permanente nei contesti sociali ed economici europei, preferendo
considerarla temporanea, di passaggio, del tutto accessoria al destino europeo.
In termini generali, su un piano strettamente pratico, tale impostazione ha comportato:
un rafforzamento operativo e finanziario degli organi di controllo dei vari paesi Ue, con
un’estensione delle loro competenze su immigrazione, asilo e integrazione, anche a
scapito di altre istituzioni (p. es.: gli enti locali);
una concentrazione delle risorse economiche, umane e tecnologiche soprattutto nella
gestione delle emergenze (soccorsi, salvataggi, prima accoglienza), senza un’adeguata
pianificazione della successiva tutela umanitaria nei contesti ospitanti;
un indebolimento delle politiche di welfare e di integrazione (conseguenza, anche, della
crescente destinazione delle risorse economiche ad azioni di controllo dei migranti);
un mancato coordinamento con la politica estera e la cooperazione internazionale, che
avrebbe consentito di agire più efficacemente nei paesi di origine o di transito dei
migranti con progetti di
state building
e di sviluppo.
Impedendo una seria revisione delle politiche dei permessi di soggiorno
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e dei criteri di
legalità degli ingressi e delle permanenze dei migranti, tale orientamento ha finito con il sortire
due effetti del tutto contrari alle sue finalità. Da un lato, lungi dal diminuire o dall’essere in
qualche modo regolati, i flussi migratori
irregolari
sono aumentati, essendovi necessariamente
compresi quelli dei profughi, la cui condizione giuridica, a tutt’oggi, può solo essere definita
dopo l’approdo nel paese ospitante e previa apposita richiesta. L’aggravarsi delle crisi belliche
in regioni prossime all’Ue (Libia e Siria, in particolare), unitamente al perdurare di guerre
a
bassa intensità
in aree già segnate da migrazioni di massa (Corno d’Africa, Nigeria, Sudan, Iraq,
Afghanistan, per limitarci alle principali), ha infatti reso la situazione degli arrivi sempre più
drammatica e sempre meno governabile con gli attuali strumenti legislativi e operativi europei.
Testimoniano la tragicità degli eventi l’alto numero di morti lungo le vie di fuga verso l’Europa e
la dispersione umana cui spesso dà luogo un’accoglienza temporalmente compressa che non
crea integrazione.
D’altro canto, proprio in corrispondenza dell’aumento dei richiedenti asilo da paesi in
guerra, molti paesi (tra questi, l’Ungheria, la Danimarca, la Bulgaria, l’Austria), tra il 2015 e il
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Rivedere i criteri di “legalità” degli ingressi avrebbe portato a considerare, per esempio, la possibilità di
richiedere asilo politico prima dell’arrivo negli stati Ue (p. es. presso le delegazioni Ue nei paesi terzi),
permettendo una pianificazione strutturale di canali “sicuri” verso l’Europa.