Per una politica europea di asilo, accoglienza e immigrazione
multiculturalismo per rivendicare la sua eccezione e resistere al “potere” dei
servizi. In questo caso, la mediazione interculturale non agisce per rafforzare una
parte contro l’altra e nemmeno per confermare l’uno o l’altro. La mediazione usa i
suoi strumenti di conoscenza del servizio e dell’universo culturale del cittadino,
per focalizzare l’attenzione sulla persona o la famiglia seguita, accompagnare a
riconoscere punti di debolezza e di forza e a formulare la richiesta di aiuto senza la
quale ogni intervento perde la sua efficacia.
Un esperto culturale osserva e attribuisce significati e spiegazioni alle
espressioni e agli atteggiamenti, non interagisce o negozia le proprie conoscenze
con l’interessato, non può considerarsi mediatore interculturale anche se lui/lei
stesso/a è di origine straniera. Il mediatore interculturale, invece, non agisce come
esperto di cultura ma si accontenta di facilitare l’espressione dell’utente. Evocando
Paulo Freire, l’educando (oppresso) è l’unico esperto del suo vissuto e delle sue
dinamiche e contraddizioni, ma potrebbe non detenere i mezzi per esprimere
questo. Ciò di cui ha bisogno non è che altri gli propongano o li impongano un
vissuto/un mondo nuovo e diverso, che non avrebbe niente a che vedere con la sua
storia e con i suoi riferimenti. Ciò di cui, invece, ha bisogno sono solamente gli
strumenti per esprimersi, per trasformare il suo sapere e il suo vissuto in simboli
trasmissibili ad altri che non appartengono al suo gruppo e che interagiscono con
dinamiche diverse. In questo, il mediatore interculturale diventa uno “strumento”
che, attraverso il suo tentativo di sapere e di capire, permette al cittadino straniero
di comunicare e farsi ascoltare dal servizio e viceversa.
Capita spesso che l’utente/paziente esprima il suo stupore, quando il suo
connazionale “colto e ben introdotto nei servizi italiani” gli chiede di spiegargli
meglio, o si pone davanti a lui come se non sapesse, o, altre volte, gli domanda di
parlare al posto suo. È vero che la traduzione del mediatore interculturale rende la
formulazione dell’utente più “elegante”, non solo grazie al suo livello di conoscenza
della lingua italiana e di quella colta di origine, ma anche perché è meno sottoposto
alle emozioni che condizionano l’utente durante il colloquio. Lo stesso incide anche
sulle formulazioni degli operatori che diventano nella traduzione meno “tecnicisti”
e usano meno parole che potrebbero ferire interlocutore. Si è infatti visto che,
anche quando l’utente o l’operatore percepisce l’ingiuria, l’insulto o la parola
offensiva dell’altro, si riesce, grazie al tempo della traduzione e alla sua “eleganza”,
a concentrarsi sull'oggetto del colloquio allontanandosi da ogni soggettività
comunicativa.
Infine, la mediazione interculturale non semplifica, ma fa emergere la
complessità delle situazione. Non rafforza l’imposizione di valori scientifici o
universali, ma contribuisce a costruire patti condivisibili che rendono migliore la
vita futura di tutti, che non arretrano nei traumi del passato ma sono utili per
uscire da situazioni di “crisi”, “patologia” o “disagio”. Non impone definizioni o
saperi, ma favorisce l’espressione dei saperi dei comunicanti. Usa strategie
comunicative articolando il passaggio da una lingua all'altra, regola il tempo e
riorienta la discussione.
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