Per una politica europea di asilo, accoglienza e immigrazione
E l’Italia - che, nei confronti dell’Europa ha sviluppato una stanca litania
sostenendo di essere lasciata sola ad affrontare il fenomeno senza, peraltro, mai
mettere in discussione i trattati di Dublino nelle loro varie versioni, vero nodo del
problema
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- forse non ha tutte le ragioni che la vulgata le attribuisce. Se ci
soffermiamo sulle richieste di asilo ricevute nel 2014, i dati di Eurostat ci dicono
che, a tutto il mese di Settembre, ammontavano a 44.000 circa. Il dato interessante
sta nei paesi di provenienza: Mali (7735), Nigeria (6815), Gambia (5809), Pakistan
(5070) Senegal (3094) e Afghanistan (2162). E Siria e Corno d’Africa da cui sono
arrivate decine di migliaia di migranti? Solo circa 700 richieste in tutto. Sembra un
paradosso ma c’è una spiegazione semplicissima: siriani, somali, eritrei vogliono
ottenere l’asilo da un paese del nord Europa (Germania, Svezia, Danimarca,
Norvegia) dover esistono comunità numerose di connazionali e dove spesso hanno
familiari residenti. L’appeal del nostro paese sta scendendo in picchiata nelle
preferenze del popolo migrante: crisi economica, situazione del mercato del lavoro,
livelli di accoglienza disperanti stanno trasformando il nostro paese, per una
percentuale considerevole di migranti (non ci sono dati disponibili ma possiamo,
con una certa prudenza, affermare almeno per il 60%) in paese di passaggio
anziché di arrivo. È un’analogia col Messico abbastanza impressionante, come
vedremo dopo.
Teniamo presente che, nello stesso periodo, la Germania ha ricevuto più o
meno 170 mila richieste di asilo (circa 4 volte l’Italia).
Uno spunto di riflessione anche sulle “politiche di accoglienza”: i frutti
avvelenati della “Bossi-Fini”, ma, ancor prima, della “Turco-Napolitano”, sono alla
base della situazione attuale. L’istituzione dei CPT, trasformatisi nel 2008 in CIE,
cioè la prigione per chi, nella maggior parte dei casi, non ha compiuto alcun reato
ed è colpevole unicamente di essere indocumentato, rappresenta uno spartiacque
nelle politiche di accoglienza. La reclusione forzata è diventata una risposta ai
migranti che sono sul nostro territorio in cerca di una vita migliore ed ha
surrogato, nella maggior parte dei casi, l’assenza di politiche pubbliche che si
occupassero di costruire percorsi di accompagnamento al lavoro, all’istruzione,
alla casa, all’apprendimento della lingua, in una parola all’inserimento in un
contesto sociale e politico spesso diversissimo da quello di provenienza. Lo stesso
meccanismo ha funzionato anche per chi aveva un permesso di soggiorno per
lavoro o ricongiungimento familiare. Questi aspetti sono stati quasi
completamente lasciati alle associazioni di volontariato, alle reti legate alla chiesa
cattolica, qualche volta agli Enti Locali sensibili al problema. La sostanziale
mancanza di politiche pubbliche ha determinato che, all’uscita dai periodi di
detenzione nei CIE che potevano durare anche due anni (sic!), i migranti erano
fatalmente destinati all’immersione nell’anonimato diventando spesso facile preda
della criminalità organizzata. A ciò si aggiungano i cosiddetti respingimenti
extralegali, che nessuna autorità pubblica ammetterebbe mai, ma che sono stati
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I Trattati di Dublino impongono, infatti, al paese di primo arrivo di occuparsi dei migranti che non lo
possono lasciare anche se in possesso di un permesso di soggiorno per ragioni umanitarie.
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